LA
CAROTA
20 febbraio 2008 a cura di Cristina Marello
La famiglia delle
Ombrellifere raggruppa oltre 2.000 specie vegetali, prevalentemente erbacee.
Esistono alcune forme cespugliose e sono totalmente assenti le forme arboree.
L’ombrellifera in generale ha tratti arcaici, quasi primitivi, la
parte epigea della pianta ha strutture semplici tendenzialmente assottigliate,
quasi a rarefarsi nell’aria. Le foglie rappresentano l’organo
di cooperazione con l’aria e l’acqua, luce e oscurità.
Nelle ombrellifere assistiamo a questo estendersi, fino all’estremo,
delle foglie che, come dita si aprono all’etere chimico e all’etere
della luce. Ciò che nasce in queste foglie articolate, ripiega
nel terrestre e viene custodito gelosamente nel terreno dando vita a radici
forti e carnose. E poi il fiore: è quasi un tributo all’aria,
componendosi in ombrelle e cupole aperte in piani ben distesi, in una
moltitudine di puntolini bianchi o appena verdeggianti, come una nuvola
di stelle. Fiori che esprimono il loro distacco dall’elemento acqua
attraverso forme raggiate lineari e del tutto prive di carnosità,
i frutti stessi sono piccoli acheni secchi, lievemente incurvati a mezzaluna.
A contrapporsi a questa rarefazione aerea così minerale di fusto,
foglie e fiori, c’è il movimento di risalita dell’energia
terrestre radicale in forma di gomme e mucillagini. La formazione di lattice,
così tipico delle Ombrellifere, è l’espressione dell’incontro
tra due tendenze molto forti: l’incarnazione degli elementi aria
e luce che normalmente procedono all’induzione di sintesi di oli
e resine, discende a incontrare il polo terrestre fortemente radicato
nel suolo. Da questo amalgama prendono avvio i processi di natura “mercuriale”
che originano le gommoresine. Si tratta di un’alchimia potente,
non a caso, infatti, tra le Ombrellifere si trovano anche numerose specie
altamente velenose (ricordiamo la cicuta di Socrate).
Queste piante trovano il loro perfetto equilibrio mediando tra due poli
dicotomicamente opposti, radice e fiore, che incarnano profondamente due
forze antagoniste e che tuttavia trovano la totale intesa armonica nell’organismo
vegetale. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se le Ombrellifere
siano così importanti nella pratica terapeutica, proprio in funzione
delle loro capacità riequilibratici, particolarmente a livello
delle ghiandole e in tutti i processi di secrezione e di escrezione metabolica.
La Carota appartiene al genere Daucus ed è originaria della regione
mediterranea. E’ la più nota pianta d’uso alimentare
offerta da questa famiglia, ma non l’unica. Finocchio, sedano, cumino,
aneto, prezzemolo e varie altre specie da consumo e aromatiche, appartengono
alle Ombrellifere.
Al giorno d’oggi si è erroneamente portati a identificare
il valore alimentare con il valore nutrizionale. Dietologi, riviste specializzate
ed etichette, si affannano a fornirci la lista del contenuto in grassi,
zuccheri, proteine e sali minerali di ciò che mangiamo. Questo
è riduttivo perché il valore alimentare comprende altri
aspetti che non la mera composizione chimica. In particolare l’appetibilità
è un valore alimentare importante, oggi questo aspetto è
delegato alla pubblicità: l’appetibilità è
slegata dall’alimento per associarsi invece alla forma e colore
della confezione o alle labbra della modella che reclamizza il prodotto
in tv. Ma se questo vale soprattutto per i prodotti trasformati, il discorso
cambia per frutta e verdura fresche. E non possiamo ignorare l’impatto
visivo e olfattivo della carota. Con il suo colore giallo-aranciato e
il suo aroma fresco e minerale la carota evoca visioni di terra e di sole,
di salute e forza, come un’alba o la primavera è luce commestibile
nel nostro piatto.
La radice carnosa giallo-arancio della carota contiene dal 6 al 12% di
zuccheri solubili o organicati in gomme e mucillagini, mai amido che è
del tutto assente in questa Famiglia. Le carote contengono beta-carotene
e per questo considerate ricche di proprietà antiossidanti. Ciò
significa che se inserite regolarmente nella dieta, svolgono la vera prevenzione
contro il cancro, le infezioni, la degenerazione degli occhi, malattie
polmonari e l’indurimento delle arterie. Parlo di vera prevenzione
per distinguerla dalla falsa prevenzione, quella che troppo spesso non
è altro che diagnosi precoce. Quella finta prevenzione che passa
attraverso cataste di analisi costose prescritte periodicamente da medici
che ormai non ci guardano nemmeno più in faccia ma che, come vigili
urbani, ci dirottano verso radiografie, risonanze, analisi del sangue
e delle urine, gastroscopie e compagnia bella. Il beta-carotene non è
distrutto dalla cottura ma, una volta ingerito, si trasforma in vitamina
A nella sola quantità necessaria all’organismo stesso, evitando
così sovraccarichi. Questa “saggezza” del corpo risiede
nel fegato, più esso è affaticato e malconcio e meno sarà
capace di regolare questo fondamentale equilibrio. Ma quando si dice che
le carote sono ricche in vitamina A (il beta-carotene è la provitamina
dalla quale deriva la vitamina A), esattamente che cosa intendiamo? Tutte
le verdure e la frutta (eccettuate le mele) contengono, chi più
chi meno, la vitamina A: il pomodoro 1.300 U.I, il sedano 50 U.I, i piselli
500 U.I, il cavolo 2.100.I., la lattuga 500 U.I.. La carota 20.000 U.I.,
una bella differenza. Anche il contenuto in Sali minerali è piuttosto
elevato, il potassio è presente in quantità quasi doppia
rispetto alla stragrande maggioranza delle verdure (230 ppm), il potassio
ha un’azione positiva sul cuore, sui muscoli in genere e sull’elasticità
delle arterie. Anche il contenuto in fosforo manganese e calcio supera
il livello medio degli altri ortaggi.
Nell’orto la carota si avvantaggia della consociazione con spinacio
e con le liliacee in genere (aglio, cipolla, scalogno, …). Carota
e cipolla si proteggono reciprocamente dai parassiti, ma sanno dividersi
anche lo spazio senza infastidirsi: la prima spinge la sua radice in profondità,
mentre la seconda si espande orizzontalmente nel terreno. Da evirarsi
invece la consociazione con fagiolo e leguminose in genere, e con il peperone
e le lattughe con quali condivide numerosi patogeni terricoli.
La germinazione del seme è
piuttosto lenta e la plumetta ai primi stadi è estremamente fragile.
E’ perciò necessario prestare molta cura al letto di semina
che deve presentarsi soffice e ben areato. Da evitarsi anche ogni azione
di disturbo durante il ciclo colturale, per quanto possibile. Il diradamento
e la sarchiatura costituiscono una fonte di stress per la coltura perciò
è meglio cercare di seminare poco fittamente e prediligere la scerbatura
per eliminare le infestanti. La carota ama terreni profondi e sciolti,
sfrutta bene la ricchezza organica, ma va assolutamente evitato il letto
caldo, o comunque la fertilizzazione con sostanza organica fresca. In
tal senso è molto importante l’uso corretto del preparato
500 sul terreno, a maggior ragione se la coltura della carota è
stata preceduta da leguminose o da colture da sovescio. La fertilizzazione
con materiale ben umificato proveniente dal cumulo biodinamico Terreni
pesanti o con scheletro inducono la formazione di fittoni deformi o doppi.
Poiché la germinazione del seme è molto lenta si può
realizzare una pacciamatura verde temporanea per evitare la formazione
di crosta. Su piccole superfici è anche pensabile lo spargimento
di un velo di sabbia. In agricoltura biodinamica si consiglia anche il
bagno delle sementi. Per la carota in particolare si consiglia il bagno
nel preparato di valeriana, preparato come di consueto. La semente va
immersa per un’ora e rimestata affinché i semi non formino
grumi. Dopodiché i semi vanno prelevati e stesi su carta assorbente
in luogo ombroso ad asciugare. La semina va fatta entro il secondo giorno
dal bagno. Questa pratica ha un’intensa azione sui semi, ne stimola
la germinazione e rafforza sensibilmente lo sviluppo delle giovani piante.
La temperatura ottimale per questa pianta è compresa tra i 16 e
i 18°C, situazione ottimale anche per la germinazione di numerose
erbe spontanee avventizie. Una falsa semina può ridurre drasticamente
il problema delle infestanti nei primi stadi colturali. Il ciclo colturale
dura da 100 a 130 giorni a seconda della varietà e dell’andamento
climatico, si devono perciò prevedere comunque più interventi
per l’eliminazione delle infestanti tramite pacciamatura verde,
rincalzatura per le piantagioni a file, e scerbatura. Tra le varietà
più facilmente reperibili ci sono la Rodelika dal ciclo piuttosto
lungo, aromatica e vigorosa, la carota precoce Flakkèe dalla radice
estremamente grossa e allungata, la tipologia Nantese di grossa pezzatura
e colorazione intensa, molto produttiva, la carota di Napoli dal fittone
molto lungo, la carota di Albenga e molte altre.
La pacciamatura verde ha indubbi
vantaggi evitando la formazione della crosta superficiale, mantenendo
più costante l’umidità e la temperatura del suolo,
migliorando la germinazione (a causa degli effetti precedenti) e rallentando
la crescita delle infestanti. Per la pacciamatura verde (intendendosi
per “verde” l’origine vegetale e non il colore del materiale)
sono adatte la paglia, il truciolo e le cortecce, da evitarsi l’erba
perché anche se essiccata tenderebbe a compattarsi eccessivamente
(occorre realizzare uno strato di diversi centimetri per ottenere l’effetto
pacciamante) creando un ambiente asfittico e insalubre. Si può
seminare a spaglio o a file, in questo caso la distanza tra le file è
di circa 30-35 cm per file singole oppure meno a patto che ogni 3-4 file
si preveda uno spazio maggiore per il passaggio. La carota si adatta anche
alla semina su bauli o porche, il vantaggio in questo caso è il
recupero di spazio, una miglior esposizione alla luce solare se i bauli
sono orientati a sud-est e un buon sgrondo delle acque, particolarmente
utile se il terreno è tendenzialmente pesante (situazione che comunque
non favorisce la coltura). Per chi ha la possibilità di seguire
il calendario lunare il periodo adatto per la semina della carota è
in luna ascendente (il movimento dal lunistizio sud al lunistizio nord
dona impulsi favorevoli al risveglio del seme) e raccolta in luna discendente
(ne viene migliorata la serbevolezza e la conservabilità). Meno
forte è l’influenza delle lunazioni, comunque è preferibile
la semina in luna calante. La carota è tipicamente considerata
una “pianta da radice” pertanto sono da prediligersi i giorni
di terra (Vergine, Toro e Capricorno) e di acqua (Pesci, Cancro e Scorpione).
Mi piace comunque ricordare il cosiddetto “principio del minimo”
di Liebig: la crescita dei vegetali è determinata dall’elemento
che è presente in quantità minore rispetto ai fabbisogni.
E’ anche conosciuto quale “principio del secchio” perché
è con questa immagine che si spiega agli studenti di agraria il
funzionamento degli elementi nutritivi nelle piante:
Questo
principio è stato più volte modificato nel corso degli anni
e lo stesso Liebig nel suo “Testamento” pronunciò parole
molto forti riguardo a una certa visione della pratica agricola che pure
lui stesso aveva contribuito a sviluppare: “…Sfortunatamente
la vera bellezza dell'agricoltura, con i suoi stimolanti principi intellettuali
è quasi misconosciuta. L'arte dell'agricoltura si perderà
per colpa di insegnanti ignoranti, ascientifici e miopi che convinceranno
gli agricoltori a riporre tutte le loro speranze in rimedi universali,
che non esistono in natura. Seguendo i loro consigli, abbagliati da risultati
effimeri, gli agricoltori dimenticheranno il suolo e perderanno di vista
il suo valore intrinseco e la sua influenza….”. Eppure una
cosa non esclude l’altra e in un certo senso possiamo tenere a mente
questo principio del secchio per ricordare a noi stessi la necessità
di una visione ampliata di tutto ciò che concerne la nostra Terra,
la nostra azienda, il nostro campo, la nostra coltura di carote. E ricordarci
di tutti gli elementi che concorrono alla buona salute della nostra pianta.
Certo non penseremo agli “elementi” nei riduttivi e vuoti
termini di N, P e K, ma penseremo alla vitalità del suolo e alla
sostanza organica, penseremo agli impulsi cosmici, alle consociazioni
e agli avvicendamenti e a tutto ciò che compone la buona pratica
agricola. Quella buona pratica agricola che è saggezza contadina
e intelligenza della pianta, due valori che ci sono stati scippati dalla
Rivoluzione Verde attraverso i concimi e gli antiparassitari di sintesi
(i risolutori universali!) e le sementi ibride. Per gli ogm possiamo considerarci
sotto assedio ma non ancora del tutto vinti…chissà per quanto
ancora. E ricorderemo anche che la nostra coltura non è qualcosa
di assemblato su una catena di montaggio ma il risultato di un tessuto
di forze, di impulsi e di elementi fortemente interagenti tra loro. Ad
esempio in un terreno “morto” avranno poca influenza gli impulsi
cosmici, così come l’abbondanza di acqua esalta gli influssi
delle lunazioni sulle piante.
La carota è soggetta ad attacchi di svariati funghi patogeni a
carico del fittone. L’insorgenza di queste patologie denota di solito
qualche errore nella gestione colturale: rotazioni troppo strette, ciclo
dell’azoto tumultuoso o caotico, avvicendamento con colture sfavorevoli
(leguminose in genere), terreni pesanti,… Ma può anche trattarsi
della sanità della semente o dell’andamento climatico. In
questi casi è necessario in primo luogo indagare sulle cause dell’insorgenza
della malattia e se possibile eliminarle, se si tratta di eccesso di umidità
per volumi d’adacquamento eccessivi si potrà modificare lo
stato di cose, se si tratta di troppa pioggia si potrà fare tesoro
dell’esperienza per l’anno successivo, magari cercando di
dare una leggera pendenza al terreno per favorire lo sgrondo.
I funghi che possono colpire la carota sono svariati:
A: Pythium,
B: Phythoptora,
C: Rhizoctonia,
D: Sclerotinia,
E: Stempylium
A: Meloydogine,
B: Heterodera,
C: Streptomyces
Il disegno consente di estremizzare il sintomo nei suoi caratteri, nella
realtà dei fatti le differenze non sono sempre così nette
e marcate. Di solito è più facile effettuare la diagnosi
su infezioni recenti e su sintomi ai primi stadi, lungo il decorso i tessuti
tendono a necrotizzare e a essere invasi da patogeni secondari e saprofiti.
La diagnosi macroscopica, cioè a occhio, è ragionevolmente
attendibile, ma solo l’analisi di laboratorio con isolamento su
substrati selettivi e analisi al microscopio può dare la certezza
(e neanche sempre) che si tratti di questo o quel fungo. C’è
da chiedersi se sia di qualche utilità saper riconoscere un patogeno
da un altro, intendo a parte per il tecnico consulente che, sfoderando
un po’ di latinorum lascerà di stucco l’agricoltore.
In fondo le indicazioni saranno poi più o meno le medesime: impiego
di semente sana, ampie rotazioni, irrigazioni frequenti e a piccoli volumi,
… Ed è in parte vero. Però si possono trarre alcune
informazioni che possono tornare utili. Ad esempio Meloydogine e Heterodera
sono nematodi, di questi organismi sappiamo che permangono per lunghissimi
periodi nel terreno infestato, ma si propagano anche con estrema lentezza,
espandendosi a macchia d’olio. Possono colpire gravemente lattughe,
fragola, aglio e cipolla. Se si decidesse, nonostante la presenza di qualche
pianta colpita da nematodi nella coltura, di lasciare andare a fiore qualche
individuo per la selezione della semente, la semente di piante di carota
asintomatiche sarebbe sana. Bisognerebbe invece prestare molta attenzione
a bulbi di liliacee presenti nei dintorni e evitare di impiegarli come
materiale di propagazione per le successive campagne. Sul terreno dove
si siano verificati attacchi di nematodi si può pensare di fare
un sovescio con una specie biocida come il rafano e la senape oppure la
Brassica napus che svolge un’azione più repellente che propriamente
biocida. I pareri sull’impiego di piante ad azione biocidi in agricoltura
biologica e biodinamica è piuttosto controverso in quanto taluni
sostengono l’efficacia parzialmente selettiva delle sostanze liberate
nel suolo (isotiocianati, nitrili e tiocianati), altri sostengono che
tale pratica non sia altro che la brutta copia delle fumigazioni con i
classici geodisinfestanti di sintesi, con gli stessi svantaggi e minor
efficacia. Pythium e la Phythoptora sono Funghi Oomiceti, ovvero funghi
piuttosto “primitivi”. Pur avendo un ottimo di temperatura
pari a 21°C, sono attivi anche a temperature piuttosto basse riuscendo
a dare luogo a infezioni molto precoci. Provocano lesioni necrotiche vitree.
Sono strettamente legati all’acqua e sviluppano infezioni solo in
presenza di molta umidità, ristagno e terreni pesanti. Le loro
zoospore possono essere veicolate dall’acqua piovana e di irrigazione
e dato che si tratta di funghi polifagi (attacca solanacee, cucurbitacee
e composite) è importante la gestione delle acque irrigue soprattutto
se si impiega il sistema per scorrimento, per non diffondere l’infezione
da una coltura all’altra. Entrambi questi funghi possono aggredire
l’ospite solo attraverso microlesioni dell’epidermide. Pertanto
tutte le operazioni colturali che possono stressare in tal senso il fittone
(diradamento, sarchiatura,…) ne predispongono l’insediamento.
Poiché gli Oomiceti sono fortemente legati alla presenza di acqua
libera, se l’irrigazione è effettuata per scorrimento è
pensabile la coltivazione su bauli o porche, in modo che l’umidità
risalga dal solco alla radice per capillarità, senza creare ristagni
a livello del fittone stesso. Gli Oomiceti sono estremamente sensibili
al rame metallo, ma i trattamenti aerei hanno scarsa efficacia, se non
per evitarne la diffusione a seguito di piogge battenti o irrigazioni
per aspersione. Molto efficaci sono i macerati con liliacee (aglio e cipolla)
per bagnature al colletto, tali bagni hanno anche effetto conciante sulla
semente. Rhizoctonia sp.p è un altro fungo estremamente polifago
che può colpire innumerevoli specie orticole e non. Meno legato
all’acqua di quanto non siano gli Oomiceti, è comunque un
fungo favorito da umidità e dallo stato di caos nel ciclo dell’azoto.
Riesce a mantenersi vitale per lunghi periodi sui residui colturali, anche
a temperature piuttosto elevate (55°C) perciò è preferibile
non gettare nel compost materiale vegetale che si sospetti infetto da
Rhizoctonia (se è pur vero che un buon compost arriva anche a 60°C
esiste sempre una certa approssimazione). Mentre gli Oomiceti, attraverso
schizzi d’acqua possono anche colpire la parte aerea della pianta,
Rhizoctonia è esclusivamente legata alla radice. I tessuti colpiti
tendono ad assumere sfumature violacee. La persistenza di Rhizoctonia
nel suolo è lunghissima, fino a vent’anni. Si evince pertanto
che la rotazione e l’avvicendamento, seppure importanti, non possono
da soli debellare il patogeno, anche in considerazione dell’ampio
numero di specie ospiti. In questo senso la vitalità del suolo
e la salubrità della coltura (intesa come assenza di stress) sono
di fondamentale importanza. Esistono, infatti, numerosi funghi antagonisti
che limitano lo sviluppo virulento di Rhizoctonia, in particolare il Trichoderma
hartianum. I funghi antagonisti sono organismi tellurici saprofiti che
traggono il loro sostentamento dagli essudati radicali delle piante. Non
sono simbionti in quanto la pianta non trae alcun beneficio diretto dalla
loro presenza. Però questi organismi occupano la superficie radicale
e impediscono fisicamente al patogeno di instaurarsi, una sorta di “chi
tardi arriva male alloggia” in versione fungina. Se è pur
vero che da molti anni tali funghi antagonisti si trovano in commercio
in svariate formulazioni rivitalizzanti, occorre ricordare che il Trichoderma,
come altri microrganismi utili, sono naturalmente presenti nel suolo e
che solo una poco oculata pratica agricola ne ha determinato la scomparsa.
Diserbanti, concimi di sintesi, movimentazioni eccessive del suolo agrario,
monocoltura, suolo nudo,… sono alcune delle ragioni per cui i terreni
muoiono e nel vuoto biologico i funghi patogeni possono moltiplicarsi
senza incontrare ostacoli. E’ in questo senso che la rotazione (che
favorisce il ricambio radicale e la biodiversità anche nella popolazione
tellurica), la preservazione e aumento dell’humus, l’impiego
dei preparati biodinamici, il sovescio e l’inerbimento, etc…
sono pratiche altamente efficaci nella prevenzione. La pacciamatura con
corteccia e aghi di conifere sfavorisce il fungo a causa dei tannini che
libera via via durante il ciclo vegetativo della carota, nei primi strati
del terreno. La Sclerotinia è facilmente riconoscibile perché
il fungo sviluppa un feltro biancastro sugli organi colpiti. Colpisce
anch’essa numerose piante (sedano, insalate, solanacee,…).
Con il trascorrere dei giorni nella massa biancastra che costituisce il
corpo del fungo si noteranno dei granellini nerastri (sclerosi), quelli
sono gli organi di resistenza e propagazione del fungo e sono estremamente
longevi. Assolutamente da evitarsi consociazioni e successioni con insalate,
molto soggette, i residui colturali delle colture colpite vanno assolutamente
allontanati e distrutti. Può capitare che le carote appaiano sane
alla raccolta e vengano immagazzinate. L’infezione prosegue così
in magazzino fino a generare sgradite sorprese.
Le colture precoci
sono più soggette alla Sclerotinia rispetto alle tardive, ma questa
è una considerazione generale fatta su medie stagionali standard,
mentre possono verificarsi inverni miti e primavere molto rigide che ribalterebbero
quanto precedentemente detto. Esistono ancora numerosi altri funghi che
possono colpire il fittone: Verticillium, Chalaropsis, Thielaviopsis,
Aspergillus, Botrytis, Alternaria, … Tutti questi patogeni possono
aggredire il fittone in campo e proseguire l’infezione in magazzino.
In agricoltura convenzionale si impiegano geodisinfestanti e svariati
fungicidi sistemici per controllare queste infezioni. Ma perseguendo questo
cammino l’unica soluzione è arrivare alla sterilità
assoluta del suolo. In agricoltura biodinamica invece l’obbiettivo
è diametralmente opposto, ovvero creare un terreno talmente vitale
che i funghi patogeni non trovino spazio per il loro sviluppo e che la
pianta non si trovi in condizioni di stress. A questo proposito la scelta
varietale è molto importante: le tipologie locali sono da preferirsi,
in quanto frutto di una selezione di individui che meglio si adattano
a una determinata località, per clima e pedologia. Sono attualmente
in atto numerose sperimentazioni per verificare l’efficacia di composti
omeopatici contro tali agenti patogeni, sia per l’impiego in campo
che per aumentare la conservabilità in magazzino.
Ci sono anche alcuni funghi patogeni che attaccano la parte aerea della
pianta: Cercospora, Septoria, Erysiphe, Leivellula, Alternaria dauci.
Cercospora e Septoria causano la comparsa di piccole tacche sui lembi
fogliari (Cercospora provoca tacche circolari chiare al centro e con bordo
scuro, Septoria invece provoca piccole chiazze dapprima giallastre e poi
cosparse di piccoli puntolini scuri). Le infezioni si propagano grazie
alla bagnatura delle foglie, compaiono precocemente e di norma sulle foglioline
più giovani. In entrambi i casi i funghi possono conservarsi sui
semi. E’ pertanto necessario un buon controllo della sanità
della coltura prima di destinare qualche pianta alla produzione di semente.
L’oidio (Erysiphe umbelliferarum) provoca la comparsa di chiazze
grigio-biancastre, ad iniziare dalla foglie più vecchie e più
basse. Compare a stagione inoltrata, quando le temperature si siano sensibilmente
alzate. Per tutte queste malattie fogliari la consociazione con le liliacee
è utile in quanto aglio e cipolla favoriscono l’arieggiamento
e quindi un microclima meno umido. Inoltre liberano nell’aria composti
volatili a base solforata che disturbano gli agenti di malattia. Trattamenti
aerei con macerati di aglio e cipolla sono piuttosto efficaci, anche soluzioni
idroalcoliche di propoli dimostrano buona efficacia fungicida sulle foglie.
Il decotto di equiseto, distribuito periodicamente accresce la resistenza
delle piante alle malattie fogliari e telluriche.
Tra le problematiche più ricorrenti sulla carota ricordiamo la
mosca Psilla rosae. Si tratta di un Dittero che compie due generazioni
l’anno. L’adulto è un moscerino di piccole dimensioni,
la femmina depone le uova a primavera (aprile, con le dovute variazioni
a seconda della latitudine e dell’andamento stagionale). Le uova
vengono deposte nel terreno a qualche millimetro di profondità
vicino al colletto della carota. Le larve biancastre e apode scavano gallerie
nelle radici, che una volta lesionate si biforcano o si spaccano o vanno
incontro a marciumi. Le lesioni della mosca sono un’ottima via d’ingresso
per i funghi patogeni. La seconda generazione di adulti compare in piena
estate, a luglio agosto. Regolandosi opportunamente sull’epoca di
semina e sulla durata del ciclo colturale della varietà prescelta
si può sfuggire parzialmente all’infestazione. Hanno buona
efficacia le piante schermanti impiegate in consociazione: aglio, cipolla
e porro e anche la maggiorana. Ricordando che i Ditteri sono attirati
dal colore giallo si possono impiegare trappole cromotropiche di questo
colore (pannelli di materiale plastico ricoperti di colla) per fare cattura
massale e ridurre la popolazione di adulti. Infine sono efficaci le irrorazioni
con decotti d’aglio e cipolla per l’azione repellente contro
l’insetto. Per interventi diretti invece sono efficaci il legno
di Quassia, l’olio di neem e il piretro. A questo proposito bisogna
comunque tenere presente che piretro e Quassia agiscono per contatto perciò
le larve sottoterra o già penetrate nella radice non sono distrutte.
Il neem ha invece una certa attività sistemica, ma non ha effetto
abbattente: rallenta e inibisce l’insetto dannoso, rende meno appetibile
la pianta, questo effetto si manifesta soprattutto quando i trattamenti
siano ripetuti più volte nel tempo (almeno 2 o 3 interventi) questo
rende il prodotto interessante perché può raggiungere l’insetto
laddove altri prodotti sono inefficaci ma in caso di attacchi gravi non
è affatto tempestivo. Assolutamente inefficace è il Bacillus
thuringiensis che, ricordiamo, agisce contro i lepidotteri: allo stadio
giovanile le larve dei lepidotteri possiedono svariate paia di pseudozampe
(es. la tignola del porro, la cavolaia su crocifere e la piralide su peperone),
mentre le larve dei Ditteri ne sono prive. In ogni modo occorre tenere
presente che la carota è una pianta che ottimizza la traslocazione
e l’immagazzinamento delle sostanze nella radice, che siano esse
elementi nutritivi o cataboliti di antiparassitari.
Buona parte delle
problematiche fitosanitaria illustrate sono eredità di un’agricoltura
distruttiva e insensata. La selezione di ibridi iperproduttivi ha fornito
all’agricoltore piante squilibrate nella loro polarità aerea
e terrestre, inoltre la standardizzazione porta a coltivare piante con
caratteristiche e cicli spesso inadatti al luogo di piantagione (con conseguente
stress da adattabilità della coltura), la spinta produttiva con
irrigazioni e concimazioni crea i presupposti per l’insorgenza di
malattie e i trattamenti antiparassitari creano un vuoto biologico che
favorisce altri parassiti ancora.
Una scelta oculata della varietà, una corretta gestione della fertilità
e della vitalità del suolo, la pianificazione degli avvicendamenti
e delle consociazioni, l’uso dei preparati biodinamici, delle tisane,
dei decotti e dei macerati di piante locali, sono tutte pratiche di buona
agricoltura a basso costo e altamente efficaci nel perseguire gli obbiettivi
di un buon agricoltore: trarre la giusta remunerazione dal proprio lavoro
di produttore di cibi salubri e di custode della vitalità della
terra.
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