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LA CAROTA
20 febbraio 2008 a cura di Cristina Marello

La famiglia delle Ombrellifere raggruppa oltre 2.000 specie vegetali, prevalentemente erbacee. Esistono alcune forme cespugliose e sono totalmente assenti le forme arboree. L’ombrellifera in generale ha tratti arcaici, quasi primitivi, la parte epigea della pianta ha strutture semplici tendenzialmente assottigliate, quasi a rarefarsi nell’aria. Le foglie rappresentano l’organo di cooperazione con l’aria e l’acqua, luce e oscurità. Nelle ombrellifere assistiamo a questo estendersi, fino all’estremo, delle foglie che, come dita si aprono all’etere chimico e all’etere della luce. Ciò che nasce in queste foglie articolate, ripiega nel terrestre e viene custodito gelosamente nel terreno dando vita a radici forti e carnose. E poi il fiore: è quasi un tributo all’aria, componendosi in ombrelle e cupole aperte in piani ben distesi, in una moltitudine di puntolini bianchi o appena verdeggianti, come una nuvola di stelle. Fiori che esprimono il loro distacco dall’elemento acqua attraverso forme raggiate lineari e del tutto prive di carnosità, i frutti stessi sono piccoli acheni secchi, lievemente incurvati a mezzaluna. A contrapporsi a questa rarefazione aerea così minerale di fusto, foglie e fiori, c’è il movimento di risalita dell’energia terrestre radicale in forma di gomme e mucillagini. La formazione di lattice, così tipico delle Ombrellifere, è l’espressione dell’incontro tra due tendenze molto forti: l’incarnazione degli elementi aria e luce che normalmente procedono all’induzione di sintesi di oli e resine, discende a incontrare il polo terrestre fortemente radicato nel suolo. Da questo amalgama prendono avvio i processi di natura “mercuriale” che originano le gommoresine. Si tratta di un’alchimia potente, non a caso, infatti, tra le Ombrellifere si trovano anche numerose specie altamente velenose (ricordiamo la cicuta di Socrate).
Queste piante trovano il loro perfetto equilibrio mediando tra due poli dicotomicamente opposti, radice e fiore, che incarnano profondamente due forze antagoniste e che tuttavia trovano la totale intesa armonica nell’organismo vegetale. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se le Ombrellifere siano così importanti nella pratica terapeutica, proprio in funzione delle loro capacità riequilibratici, particolarmente a livello delle ghiandole e in tutti i processi di secrezione e di escrezione metabolica.
La Carota appartiene al genere Daucus ed è originaria della regione mediterranea. E’ la più nota pianta d’uso alimentare offerta da questa famiglia, ma non l’unica. Finocchio, sedano, cumino, aneto, prezzemolo e varie altre specie da consumo e aromatiche, appartengono alle Ombrellifere.
Al giorno d’oggi si è erroneamente portati a identificare il valore alimentare con il valore nutrizionale. Dietologi, riviste specializzate ed etichette, si affannano a fornirci la lista del contenuto in grassi, zuccheri, proteine e sali minerali di ciò che mangiamo. Questo è riduttivo perché il valore alimentare comprende altri aspetti che non la mera composizione chimica. In particolare l’appetibilità è un valore alimentare importante, oggi questo aspetto è delegato alla pubblicità: l’appetibilità è slegata dall’alimento per associarsi invece alla forma e colore della confezione o alle labbra della modella che reclamizza il prodotto in tv. Ma se questo vale soprattutto per i prodotti trasformati, il discorso cambia per frutta e verdura fresche. E non possiamo ignorare l’impatto visivo e olfattivo della carota. Con il suo colore giallo-aranciato e il suo aroma fresco e minerale la carota evoca visioni di terra e di sole, di salute e forza, come un’alba o la primavera è luce commestibile nel nostro piatto.
La radice carnosa giallo-arancio della carota contiene dal 6 al 12% di zuccheri solubili o organicati in gomme e mucillagini, mai amido che è del tutto assente in questa Famiglia. Le carote contengono beta-carotene e per questo considerate ricche di proprietà antiossidanti. Ciò significa che se inserite regolarmente nella dieta, svolgono la vera prevenzione contro il cancro, le infezioni, la degenerazione degli occhi, malattie polmonari e l’indurimento delle arterie. Parlo di vera prevenzione per distinguerla dalla falsa prevenzione, quella che troppo spesso non è altro che diagnosi precoce. Quella finta prevenzione che passa attraverso cataste di analisi costose prescritte periodicamente da medici che ormai non ci guardano nemmeno più in faccia ma che, come vigili urbani, ci dirottano verso radiografie, risonanze, analisi del sangue e delle urine, gastroscopie e compagnia bella. Il beta-carotene non è distrutto dalla cottura ma, una volta ingerito, si trasforma in vitamina A nella sola quantità necessaria all’organismo stesso, evitando così sovraccarichi. Questa “saggezza” del corpo risiede nel fegato, più esso è affaticato e malconcio e meno sarà capace di regolare questo fondamentale equilibrio. Ma quando si dice che le carote sono ricche in vitamina A (il beta-carotene è la provitamina dalla quale deriva la vitamina A), esattamente che cosa intendiamo? Tutte le verdure e la frutta (eccettuate le mele) contengono, chi più chi meno, la vitamina A: il pomodoro 1.300 U.I, il sedano 50 U.I, i piselli 500 U.I, il cavolo 2.100.I., la lattuga 500 U.I.. La carota 20.000 U.I., una bella differenza. Anche il contenuto in Sali minerali è piuttosto elevato, il potassio è presente in quantità quasi doppia rispetto alla stragrande maggioranza delle verdure (230 ppm), il potassio ha un’azione positiva sul cuore, sui muscoli in genere e sull’elasticità delle arterie. Anche il contenuto in fosforo manganese e calcio supera il livello medio degli altri ortaggi.

Nell’orto la carota si avvantaggia della consociazione con spinacio e con le liliacee in genere (aglio, cipolla, scalogno, …). Carota e cipolla si proteggono reciprocamente dai parassiti, ma sanno dividersi anche lo spazio senza infastidirsi: la prima spinge la sua radice in profondità, mentre la seconda si espande orizzontalmente nel terreno. Da evirarsi invece la consociazione con fagiolo e leguminose in genere, e con il peperone e le lattughe con quali condivide numerosi patogeni terricoli.

La germinazione del seme è piuttosto lenta e la plumetta ai primi stadi è estremamente fragile. E’ perciò necessario prestare molta cura al letto di semina che deve presentarsi soffice e ben areato. Da evitarsi anche ogni azione di disturbo durante il ciclo colturale, per quanto possibile. Il diradamento e la sarchiatura costituiscono una fonte di stress per la coltura perciò è meglio cercare di seminare poco fittamente e prediligere la scerbatura per eliminare le infestanti. La carota ama terreni profondi e sciolti, sfrutta bene la ricchezza organica, ma va assolutamente evitato il letto caldo, o comunque la fertilizzazione con sostanza organica fresca. In tal senso è molto importante l’uso corretto del preparato 500 sul terreno, a maggior ragione se la coltura della carota è stata preceduta da leguminose o da colture da sovescio. La fertilizzazione con materiale ben umificato proveniente dal cumulo biodinamico Terreni pesanti o con scheletro inducono la formazione di fittoni deformi o doppi. Poiché la germinazione del seme è molto lenta si può realizzare una pacciamatura verde temporanea per evitare la formazione di crosta. Su piccole superfici è anche pensabile lo spargimento di un velo di sabbia. In agricoltura biodinamica si consiglia anche il bagno delle sementi. Per la carota in particolare si consiglia il bagno nel preparato di valeriana, preparato come di consueto. La semente va immersa per un’ora e rimestata affinché i semi non formino grumi. Dopodiché i semi vanno prelevati e stesi su carta assorbente in luogo ombroso ad asciugare. La semina va fatta entro il secondo giorno dal bagno. Questa pratica ha un’intensa azione sui semi, ne stimola la germinazione e rafforza sensibilmente lo sviluppo delle giovani piante.
La temperatura ottimale per questa pianta è compresa tra i 16 e i 18°C, situazione ottimale anche per la germinazione di numerose erbe spontanee avventizie. Una falsa semina può ridurre drasticamente il problema delle infestanti nei primi stadi colturali. Il ciclo colturale dura da 100 a 130 giorni a seconda della varietà e dell’andamento climatico, si devono perciò prevedere comunque più interventi per l’eliminazione delle infestanti tramite pacciamatura verde, rincalzatura per le piantagioni a file, e scerbatura. Tra le varietà più facilmente reperibili ci sono la Rodelika dal ciclo piuttosto lungo, aromatica e vigorosa, la carota precoce Flakkèe dalla radice estremamente grossa e allungata, la tipologia Nantese di grossa pezzatura e colorazione intensa, molto produttiva, la carota di Napoli dal fittone molto lungo, la carota di Albenga e molte altre.

La pacciamatura verde ha indubbi vantaggi evitando la formazione della crosta superficiale, mantenendo più costante l’umidità e la temperatura del suolo, migliorando la germinazione (a causa degli effetti precedenti) e rallentando la crescita delle infestanti. Per la pacciamatura verde (intendendosi per “verde” l’origine vegetale e non il colore del materiale) sono adatte la paglia, il truciolo e le cortecce, da evitarsi l’erba perché anche se essiccata tenderebbe a compattarsi eccessivamente (occorre realizzare uno strato di diversi centimetri per ottenere l’effetto pacciamante) creando un ambiente asfittico e insalubre. Si può seminare a spaglio o a file, in questo caso la distanza tra le file è di circa 30-35 cm per file singole oppure meno a patto che ogni 3-4 file si preveda uno spazio maggiore per il passaggio. La carota si adatta anche alla semina su bauli o porche, il vantaggio in questo caso è il recupero di spazio, una miglior esposizione alla luce solare se i bauli sono orientati a sud-est e un buon sgrondo delle acque, particolarmente utile se il terreno è tendenzialmente pesante (situazione che comunque non favorisce la coltura). Per chi ha la possibilità di seguire il calendario lunare il periodo adatto per la semina della carota è in luna ascendente (il movimento dal lunistizio sud al lunistizio nord dona impulsi favorevoli al risveglio del seme) e raccolta in luna discendente (ne viene migliorata la serbevolezza e la conservabilità). Meno forte è l’influenza delle lunazioni, comunque è preferibile la semina in luna calante. La carota è tipicamente considerata una “pianta da radice” pertanto sono da prediligersi i giorni di terra (Vergine, Toro e Capricorno) e di acqua (Pesci, Cancro e Scorpione). Mi piace comunque ricordare il cosiddetto “principio del minimo” di Liebig: la crescita dei vegetali è determinata dall’elemento che è presente in quantità minore rispetto ai fabbisogni. E’ anche conosciuto quale “principio del secchio” perché è con questa immagine che si spiega agli studenti di agraria il funzionamento degli elementi nutritivi nelle piante:

Questo principio è stato più volte modificato nel corso degli anni e lo stesso Liebig nel suo “Testamento” pronunciò parole molto forti riguardo a una certa visione della pratica agricola che pure lui stesso aveva contribuito a sviluppare: “…Sfortunatamente la vera bellezza dell'agricoltura, con i suoi stimolanti principi intellettuali è quasi misconosciuta. L'arte dell'agricoltura si perderà per colpa di insegnanti ignoranti, ascientifici e miopi che convinceranno gli agricoltori a riporre tutte le loro speranze in rimedi universali, che non esistono in natura. Seguendo i loro consigli, abbagliati da risultati effimeri, gli agricoltori dimenticheranno il suolo e perderanno di vista il suo valore intrinseco e la sua influenza….”. Eppure una cosa non esclude l’altra e in un certo senso possiamo tenere a mente questo principio del secchio per ricordare a noi stessi la necessità di una visione ampliata di tutto ciò che concerne la nostra Terra, la nostra azienda, il nostro campo, la nostra coltura di carote. E ricordarci di tutti gli elementi che concorrono alla buona salute della nostra pianta. Certo non penseremo agli “elementi” nei riduttivi e vuoti termini di N, P e K, ma penseremo alla vitalità del suolo e alla sostanza organica, penseremo agli impulsi cosmici, alle consociazioni e agli avvicendamenti e a tutto ciò che compone la buona pratica agricola. Quella buona pratica agricola che è saggezza contadina e intelligenza della pianta, due valori che ci sono stati scippati dalla Rivoluzione Verde attraverso i concimi e gli antiparassitari di sintesi (i risolutori universali!) e le sementi ibride. Per gli ogm possiamo considerarci sotto assedio ma non ancora del tutto vinti…chissà per quanto ancora. E ricorderemo anche che la nostra coltura non è qualcosa di assemblato su una catena di montaggio ma il risultato di un tessuto di forze, di impulsi e di elementi fortemente interagenti tra loro. Ad esempio in un terreno “morto” avranno poca influenza gli impulsi cosmici, così come l’abbondanza di acqua esalta gli influssi delle lunazioni sulle piante.
La carota è soggetta ad attacchi di svariati funghi patogeni a carico del fittone. L’insorgenza di queste patologie denota di solito qualche errore nella gestione colturale: rotazioni troppo strette, ciclo dell’azoto tumultuoso o caotico, avvicendamento con colture sfavorevoli (leguminose in genere), terreni pesanti,… Ma può anche trattarsi della sanità della semente o dell’andamento climatico. In questi casi è necessario in primo luogo indagare sulle cause dell’insorgenza della malattia e se possibile eliminarle, se si tratta di eccesso di umidità per volumi d’adacquamento eccessivi si potrà modificare lo stato di cose, se si tratta di troppa pioggia si potrà fare tesoro dell’esperienza per l’anno successivo, magari cercando di dare una leggera pendenza al terreno per favorire lo sgrondo.
I funghi che possono colpire la carota sono svariati:


A: Pythium,
B: Phythoptora,
C: Rhizoctonia,
D: Sclerotinia,
E: Stempylium



A: Meloydogine,
B: Heterodera,
C: Streptomyces


Il disegno consente di estremizzare il sintomo nei suoi caratteri, nella realtà dei fatti le differenze non sono sempre così nette e marcate. Di solito è più facile effettuare la diagnosi su infezioni recenti e su sintomi ai primi stadi, lungo il decorso i tessuti tendono a necrotizzare e a essere invasi da patogeni secondari e saprofiti. La diagnosi macroscopica, cioè a occhio, è ragionevolmente attendibile, ma solo l’analisi di laboratorio con isolamento su substrati selettivi e analisi al microscopio può dare la certezza (e neanche sempre) che si tratti di questo o quel fungo. C’è da chiedersi se sia di qualche utilità saper riconoscere un patogeno da un altro, intendo a parte per il tecnico consulente che, sfoderando un po’ di latinorum lascerà di stucco l’agricoltore. In fondo le indicazioni saranno poi più o meno le medesime: impiego di semente sana, ampie rotazioni, irrigazioni frequenti e a piccoli volumi, … Ed è in parte vero. Però si possono trarre alcune informazioni che possono tornare utili. Ad esempio Meloydogine e Heterodera sono nematodi, di questi organismi sappiamo che permangono per lunghissimi periodi nel terreno infestato, ma si propagano anche con estrema lentezza, espandendosi a macchia d’olio. Possono colpire gravemente lattughe, fragola, aglio e cipolla. Se si decidesse, nonostante la presenza di qualche pianta colpita da nematodi nella coltura, di lasciare andare a fiore qualche individuo per la selezione della semente, la semente di piante di carota asintomatiche sarebbe sana. Bisognerebbe invece prestare molta attenzione a bulbi di liliacee presenti nei dintorni e evitare di impiegarli come materiale di propagazione per le successive campagne. Sul terreno dove si siano verificati attacchi di nematodi si può pensare di fare un sovescio con una specie biocida come il rafano e la senape oppure la Brassica napus che svolge un’azione più repellente che propriamente biocida. I pareri sull’impiego di piante ad azione biocidi in agricoltura biologica e biodinamica è piuttosto controverso in quanto taluni sostengono l’efficacia parzialmente selettiva delle sostanze liberate nel suolo (isotiocianati, nitrili e tiocianati), altri sostengono che tale pratica non sia altro che la brutta copia delle fumigazioni con i classici geodisinfestanti di sintesi, con gli stessi svantaggi e minor efficacia. Pythium e la Phythoptora sono Funghi Oomiceti, ovvero funghi piuttosto “primitivi”. Pur avendo un ottimo di temperatura pari a 21°C, sono attivi anche a temperature piuttosto basse riuscendo a dare luogo a infezioni molto precoci. Provocano lesioni necrotiche vitree. Sono strettamente legati all’acqua e sviluppano infezioni solo in presenza di molta umidità, ristagno e terreni pesanti. Le loro zoospore possono essere veicolate dall’acqua piovana e di irrigazione e dato che si tratta di funghi polifagi (attacca solanacee, cucurbitacee e composite) è importante la gestione delle acque irrigue soprattutto se si impiega il sistema per scorrimento, per non diffondere l’infezione da una coltura all’altra. Entrambi questi funghi possono aggredire l’ospite solo attraverso microlesioni dell’epidermide. Pertanto tutte le operazioni colturali che possono stressare in tal senso il fittone (diradamento, sarchiatura,…) ne predispongono l’insediamento. Poiché gli Oomiceti sono fortemente legati alla presenza di acqua libera, se l’irrigazione è effettuata per scorrimento è pensabile la coltivazione su bauli o porche, in modo che l’umidità risalga dal solco alla radice per capillarità, senza creare ristagni a livello del fittone stesso. Gli Oomiceti sono estremamente sensibili al rame metallo, ma i trattamenti aerei hanno scarsa efficacia, se non per evitarne la diffusione a seguito di piogge battenti o irrigazioni per aspersione. Molto efficaci sono i macerati con liliacee (aglio e cipolla) per bagnature al colletto, tali bagni hanno anche effetto conciante sulla semente. Rhizoctonia sp.p è un altro fungo estremamente polifago che può colpire innumerevoli specie orticole e non. Meno legato all’acqua di quanto non siano gli Oomiceti, è comunque un fungo favorito da umidità e dallo stato di caos nel ciclo dell’azoto. Riesce a mantenersi vitale per lunghi periodi sui residui colturali, anche a temperature piuttosto elevate (55°C) perciò è preferibile non gettare nel compost materiale vegetale che si sospetti infetto da Rhizoctonia (se è pur vero che un buon compost arriva anche a 60°C esiste sempre una certa approssimazione). Mentre gli Oomiceti, attraverso schizzi d’acqua possono anche colpire la parte aerea della pianta, Rhizoctonia è esclusivamente legata alla radice. I tessuti colpiti tendono ad assumere sfumature violacee. La persistenza di Rhizoctonia nel suolo è lunghissima, fino a vent’anni. Si evince pertanto che la rotazione e l’avvicendamento, seppure importanti, non possono da soli debellare il patogeno, anche in considerazione dell’ampio numero di specie ospiti. In questo senso la vitalità del suolo e la salubrità della coltura (intesa come assenza di stress) sono di fondamentale importanza. Esistono, infatti, numerosi funghi antagonisti che limitano lo sviluppo virulento di Rhizoctonia, in particolare il Trichoderma hartianum. I funghi antagonisti sono organismi tellurici saprofiti che traggono il loro sostentamento dagli essudati radicali delle piante. Non sono simbionti in quanto la pianta non trae alcun beneficio diretto dalla loro presenza. Però questi organismi occupano la superficie radicale e impediscono fisicamente al patogeno di instaurarsi, una sorta di “chi tardi arriva male alloggia” in versione fungina. Se è pur vero che da molti anni tali funghi antagonisti si trovano in commercio in svariate formulazioni rivitalizzanti, occorre ricordare che il Trichoderma, come altri microrganismi utili, sono naturalmente presenti nel suolo e che solo una poco oculata pratica agricola ne ha determinato la scomparsa. Diserbanti, concimi di sintesi, movimentazioni eccessive del suolo agrario, monocoltura, suolo nudo,… sono alcune delle ragioni per cui i terreni muoiono e nel vuoto biologico i funghi patogeni possono moltiplicarsi senza incontrare ostacoli. E’ in questo senso che la rotazione (che favorisce il ricambio radicale e la biodiversità anche nella popolazione tellurica), la preservazione e aumento dell’humus, l’impiego dei preparati biodinamici, il sovescio e l’inerbimento, etc… sono pratiche altamente efficaci nella prevenzione. La pacciamatura con corteccia e aghi di conifere sfavorisce il fungo a causa dei tannini che libera via via durante il ciclo vegetativo della carota, nei primi strati del terreno. La Sclerotinia è facilmente riconoscibile perché il fungo sviluppa un feltro biancastro sugli organi colpiti. Colpisce anch’essa numerose piante (sedano, insalate, solanacee,…). Con il trascorrere dei giorni nella massa biancastra che costituisce il corpo del fungo si noteranno dei granellini nerastri (sclerosi), quelli sono gli organi di resistenza e propagazione del fungo e sono estremamente longevi. Assolutamente da evitarsi consociazioni e successioni con insalate, molto soggette, i residui colturali delle colture colpite vanno assolutamente allontanati e distrutti. Può capitare che le carote appaiano sane alla raccolta e vengano immagazzinate. L’infezione prosegue così in magazzino fino a generare sgradite sorprese.

Le colture precoci sono più soggette alla Sclerotinia rispetto alle tardive, ma questa è una considerazione generale fatta su medie stagionali standard, mentre possono verificarsi inverni miti e primavere molto rigide che ribalterebbero quanto precedentemente detto. Esistono ancora numerosi altri funghi che possono colpire il fittone: Verticillium, Chalaropsis, Thielaviopsis, Aspergillus, Botrytis, Alternaria, … Tutti questi patogeni possono aggredire il fittone in campo e proseguire l’infezione in magazzino. In agricoltura convenzionale si impiegano geodisinfestanti e svariati fungicidi sistemici per controllare queste infezioni. Ma perseguendo questo cammino l’unica soluzione è arrivare alla sterilità assoluta del suolo. In agricoltura biodinamica invece l’obbiettivo è diametralmente opposto, ovvero creare un terreno talmente vitale che i funghi patogeni non trovino spazio per il loro sviluppo e che la pianta non si trovi in condizioni di stress. A questo proposito la scelta varietale è molto importante: le tipologie locali sono da preferirsi, in quanto frutto di una selezione di individui che meglio si adattano a una determinata località, per clima e pedologia. Sono attualmente in atto numerose sperimentazioni per verificare l’efficacia di composti omeopatici contro tali agenti patogeni, sia per l’impiego in campo che per aumentare la conservabilità in magazzino.
Ci sono anche alcuni funghi patogeni che attaccano la parte aerea della pianta: Cercospora, Septoria, Erysiphe, Leivellula, Alternaria dauci. Cercospora e Septoria causano la comparsa di piccole tacche sui lembi fogliari (Cercospora provoca tacche circolari chiare al centro e con bordo scuro, Septoria invece provoca piccole chiazze dapprima giallastre e poi cosparse di piccoli puntolini scuri). Le infezioni si propagano grazie alla bagnatura delle foglie, compaiono precocemente e di norma sulle foglioline più giovani. In entrambi i casi i funghi possono conservarsi sui semi. E’ pertanto necessario un buon controllo della sanità della coltura prima di destinare qualche pianta alla produzione di semente. L’oidio (Erysiphe umbelliferarum) provoca la comparsa di chiazze grigio-biancastre, ad iniziare dalla foglie più vecchie e più basse. Compare a stagione inoltrata, quando le temperature si siano sensibilmente alzate. Per tutte queste malattie fogliari la consociazione con le liliacee è utile in quanto aglio e cipolla favoriscono l’arieggiamento e quindi un microclima meno umido. Inoltre liberano nell’aria composti volatili a base solforata che disturbano gli agenti di malattia. Trattamenti aerei con macerati di aglio e cipolla sono piuttosto efficaci, anche soluzioni idroalcoliche di propoli dimostrano buona efficacia fungicida sulle foglie. Il decotto di equiseto, distribuito periodicamente accresce la resistenza delle piante alle malattie fogliari e telluriche.
Tra le problematiche più ricorrenti sulla carota ricordiamo la mosca Psilla rosae. Si tratta di un Dittero che compie due generazioni l’anno. L’adulto è un moscerino di piccole dimensioni, la femmina depone le uova a primavera (aprile, con le dovute variazioni a seconda della latitudine e dell’andamento stagionale). Le uova vengono deposte nel terreno a qualche millimetro di profondità vicino al colletto della carota. Le larve biancastre e apode scavano gallerie nelle radici, che una volta lesionate si biforcano o si spaccano o vanno incontro a marciumi. Le lesioni della mosca sono un’ottima via d’ingresso per i funghi patogeni. La seconda generazione di adulti compare in piena estate, a luglio agosto. Regolandosi opportunamente sull’epoca di semina e sulla durata del ciclo colturale della varietà prescelta si può sfuggire parzialmente all’infestazione. Hanno buona efficacia le piante schermanti impiegate in consociazione: aglio, cipolla e porro e anche la maggiorana. Ricordando che i Ditteri sono attirati dal colore giallo si possono impiegare trappole cromotropiche di questo colore (pannelli di materiale plastico ricoperti di colla) per fare cattura massale e ridurre la popolazione di adulti. Infine sono efficaci le irrorazioni con decotti d’aglio e cipolla per l’azione repellente contro l’insetto. Per interventi diretti invece sono efficaci il legno di Quassia, l’olio di neem e il piretro. A questo proposito bisogna comunque tenere presente che piretro e Quassia agiscono per contatto perciò le larve sottoterra o già penetrate nella radice non sono distrutte. Il neem ha invece una certa attività sistemica, ma non ha effetto abbattente: rallenta e inibisce l’insetto dannoso, rende meno appetibile la pianta, questo effetto si manifesta soprattutto quando i trattamenti siano ripetuti più volte nel tempo (almeno 2 o 3 interventi) questo rende il prodotto interessante perché può raggiungere l’insetto laddove altri prodotti sono inefficaci ma in caso di attacchi gravi non è affatto tempestivo. Assolutamente inefficace è il Bacillus thuringiensis che, ricordiamo, agisce contro i lepidotteri: allo stadio giovanile le larve dei lepidotteri possiedono svariate paia di pseudozampe (es. la tignola del porro, la cavolaia su crocifere e la piralide su peperone), mentre le larve dei Ditteri ne sono prive. In ogni modo occorre tenere presente che la carota è una pianta che ottimizza la traslocazione e l’immagazzinamento delle sostanze nella radice, che siano esse elementi nutritivi o cataboliti di antiparassitari.

Buona parte delle problematiche fitosanitaria illustrate sono eredità di un’agricoltura distruttiva e insensata. La selezione di ibridi iperproduttivi ha fornito all’agricoltore piante squilibrate nella loro polarità aerea e terrestre, inoltre la standardizzazione porta a coltivare piante con caratteristiche e cicli spesso inadatti al luogo di piantagione (con conseguente stress da adattabilità della coltura), la spinta produttiva con irrigazioni e concimazioni crea i presupposti per l’insorgenza di malattie e i trattamenti antiparassitari creano un vuoto biologico che favorisce altri parassiti ancora.
Una scelta oculata della varietà, una corretta gestione della fertilità e della vitalità del suolo, la pianificazione degli avvicendamenti e delle consociazioni, l’uso dei preparati biodinamici, delle tisane, dei decotti e dei macerati di piante locali, sono tutte pratiche di buona agricoltura a basso costo e altamente efficaci nel perseguire gli obbiettivi di un buon agricoltore: trarre la giusta remunerazione dal proprio lavoro di produttore di cibi salubri e di custode della vitalità della terra.

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